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Il boom dei fondi pensione OCSE: vent’anni di crescita tra crisi e rinascite

 Il dataset OCSE che fotografa le attività dei fondi pensione autonomi dal 2001 al 2023 rivela l’evoluzione di una colonna portante del welfare nei Paesi industrializzati. I valori, espressi in milioni di dollari correnti, incorporano sia l’andamento dei mercati sia le oscillazioni valutarie, permettendo di cogliere come riforme previdenziali, demografia e congiuntura abbiano rimodellato l’investimento istituzionale. Le disparità sono imponenti: si passa dagli oltre ventidue trilioni di dollari degli Stati Uniti nel 2023 agli importi inferiori al miliardo di alcuni piccoli mercati dell’Est europeo a inizio periodo, differenze che superano la semplice distanza economica e riflettono scelte di policy molto diverse.

A livello aggregato il patrimonio più che raddoppia in ventitré anni nonostante due scossoni: la crisi finanziaria globale del 2008-2009 e la correzione post-pandemica del 2022. Tra il 2003 e il 2007 gli attivi crescono a ritmi a doppia cifra, trainati dal rialzo dei listini azionari e dalla diffusione dei piani a contribuzione definita. Il 2008 produce riduzioni diffuse, ma il rimbalzo inizia già nel 2009, sospinto da politiche monetarie ultra-espansive. Un secondo picco si registra nel 2021, quando le iniezioni di liquidità e la rapida ripresa dell’occupazione spingono il patrimonio mondiale a nuovi massimi; la successiva stretta sui tassi frena tuttavia la corsa, erodendo il valore delle obbligazioni a lunga scadenza e comprimendo la valutazione degli asset rischiosi.

Stati Uniti e Regno Unito restano l’epicentro del risparmio previdenziale. Negli USA si passa da 7,5 miliardi di dollari a oltre 22 trilioni, grazie alla diffusione dei 401(k) e alla profondità del mercato azionario domestico. Il Regno Unito scala da 1 073 a 3 745 miliardi, beneficiando dell’auto-iscrizione obbligatoria e della trasformazione graduale dei vecchi schemi a prestazione definita. In entrambi i casi il rapporto attivi/PIL è elevato, sintomo di un modello in cui la previdenza privata è parte integrante del contratto sociale.

Australia e Paesi Bassi dimostrano che la regolamentazione può contare più della dimensione economica assoluta. La superannuation obbligatoria australiana fa impennare gli asset da 263 miliardi a oltre 2,2 trilioni, con tassi di adesione che superano il 90 % e portafogli fortemente azionari. Nei Paesi Bassi la copertura quasi universale dei lavoratori conduce gli attivi da 405 miliardi a picchi oltre i 2,1 trilioni, sebbene il rafforzamento del dollaro ridimensioni il valore in termini nominali negli ultimi anni. In entrambe le economie il patrimonio pensionistico supera largamente il PIL, offrendo ammortizzatori importanti di fronte all’invecchiamento demografico.

L’Europa continentale mostra un mosaico di situazioni. La Germania triplica gli asset da 68 a 295 miliardi grazie ai fondi aziendali e ai contratti Riester, ma il primo pilastro pubblico continua a dominare. La Francia diventa rilevante solo nell’ultima decade: i nuovi Piani d’Épargne Retraite fanno balzare gli attivi a 270 miliardi nel 2023. L’Italia cresce da 25 a 195 miliardi, ma resta indietro rispetto a Paesi analoghi per adesioni volontarie ancora limitate e per la concorrenza del trattamento di fine rapporto. Spagna e Portogallo evidenziano una fase di stagnazione, specchio di mercati del lavoro più fragili e di incentivi fiscali meno generosi.

Nei Paesi nordici la dinamica è variegata. La Danimarca tocca 224 miliardi nel 2019 ma scende sotto 150 nel 2023, oscillazione amplificata da portafogli azionari e valuta forte. La Svezia viaggia intorno a 50 miliardi senza una tendenza netta, mentre la Finlandia segue un percorso più regolare e chiude a 165 miliardi, ancora lontana dai livelli australiani pur con un PIL comparabile. La Svizzera è il caso virtuoso: da 263 miliardi sale oltre 1 345, forte della capitalizzazione obbligatoria e di una cultura del risparmio di lungo periodo consolidata.

L’America Latina documenta il potenziale e i limiti delle riforme a capitalizzazione. Il Cile vede gli attivi salire da 35 a 191 miliardi ma subisce un calo nel 2020 per i prelievi autorizzati dal governo nella pandemia, segnalando la fragilità politica dei sistemi DC maturi. Il Messico, grazie alle AFORE, decuplica il patrimonio sino a 351 miliardi, orientando parte delle risorse verso infrastrutture domestiche. Colombia e Costa Rica registrano progressioni a doppia cifra ma restano vulnerabili alle oscillazioni dei cambi e alla volatilità dei flussi contributivi.

Nell’Europa centrale e orientale la dipendenza dalle scelte di bilancio è evidente. La Polonia cresce fino a 100 miliardi nel 2012, poi crolla sotto 40 dopo il trasferimento forzoso dei titoli di Stato al regime pubblico. L’Ungheria riduce gli attivi a poco più di 5 miliardi in seguito alla nazionalizzazione dei fondi nel 2011. Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia avanzano più gradualmente, ma nessuno supera i 30 miliardi a fine periodo, a conferma di una maturazione ancora parziale del terzo pilastro.

In Asia emergono traiettorie divergenti. Il Giappone, nonostante l’enorme stock di risparmio nazionale, mostra valori sotto i 1 000 miliardi a fine periodo: il primo pilastro pubblico rimane prevalente e la platea di lavoratori anziani riduce la propensione al rischio. La Corea del Sud compie invece un balzo da 9 a quasi 300 miliardi sospinta dalla crescita dei redditi e dall’obbligo per le imprese medio-grandi di offrire piani aziendali. Israele, dopo la riforma che rende obbligatorie le contribuzioni per tutti i dipendenti, triplica gli attivi e supera i 310 miliardi, emergendo come hub regionale per il risparmio gestito.

Le due grandi crisi del periodo mettono alla prova la resilienza dei modelli. Nel 2008 i Paesi con portafogli fortemente azionari – Australia e Danimarca in testa – subiscono riduzioni superiori al 20 %, ma recuperano in uno-due anni, mentre quelli più obligazionari faticano a generare ritorni reali nell’era dei tassi a zero. La pandemia produce un crollo fulmineo e un rimbalzo record nel 2021; la stretta monetaria successiva riduce nuovamente il valore degli attivi, colpendo in particolare gli strumenti a lunga duration utilizzati per il liability-matching dei fondi a prestazione definita.

Il lungo decennio di denaro a basso costo ha spinto molti fondi verso asset illiquidi – private equity, infrastrutture, real estate – che in media raggiungono il 20 % dei portafogli OCSE. La svolta restrittiva dal 2022 ha però intaccato il valore delle obbligazioni e ravvivato il timore di tensioni di liquidità, come mostrato dal Regno Unito quando i fondi hanno dovuto liquidare gilt per far fronte alle margin call legate a strategie LDI. Questi episodi hanno ravvivato il dibattito su requisiti di capitale e governance dei rischi per i fondi DC, tradizionalmente più esposti alla volatilità di mercato.

L’invecchiamento demografico e la migrazione dai piani a prestazione definita alle formule a contribuzione definita trasferiscono l’onere del rischio investimento dai datori di lavoro ai singoli lavoratori. Gli schemi di auto-iscrizione introdotti in Paesi come Regno Unito, Irlanda e Lituania hanno innalzato i tassi di partecipazione, ma resta da capire se le aliquote correnti garantiranno pensioni adeguate a carriere sempre più intermittenti. Parallelamente i criteri ambientali, sociali e di governance sono passati da nicchia a mainstream: i fondi olandesi e svizzeri figurano tra i maggiori acquirenti di green bond, e anche gli Stati Uniti registrano un’adozione crescente, sebbene contrastata da parte del dibattito politico in singoli Stati federali.

Tre lezioni di policy emergono dal confronto internazionale. La semplicità dei meccanismi di iscrizione e la stabilità degli incentivi fiscali sono determinanti per l’accumulo, come dimostrato da Australia e Messico. La diversificazione geografica e settoriale riduce la volatilità, ma deve essere supportata da strumenti di gestione del rischio adeguati, evitando un ricorso eccessivo alla leva o a strumenti opachi. Infine l’integrazione sistematica dei criteri ESG può trasformare i fondi pensione nei principali finanziatori della transizione energetica, ma richiede standard di rendicontazione comparabili, sanzioni efficaci contro il greenwashing e, soprattutto, la capacità di valutare la performance in un’ottica di lungo periodo coerente con l’orizzonte previdenziale.

 

Fonte: OCSE

Link: https://data-explorer.oecd.org/vis?lc=en&df[ds]=dsDisseminateFinalDMZ&df[id]=DSD_FP%40DF_PA&df[ag]=OECD.DAF.CM&df[vs]=1.0&dq=USA%2BGBR%2BTUR%2BCHE%2BSWE%2BESP%2BSVN%2BSVK%2BPRT%2BPOL%2BNOR%2BNZL%2BNLD%2BMEX%2BLUX%2BLTU%2BLVA%2BKOR%2BJPN%2BITA%2BISR%2BIRL%2BISL%2BHUN%2BGRC%2BDEU%2BFRA%2BFIN%2BEST%2BDNK%2BCZE%2BCRI%2BCOL%2BCHL%2BCAN%2BBEL%2BAUT%2BAUS.A..USD...PF&to[TIME_PERIOD]=false&vw=tb&pd=2001%2C2023&pg=0&lb=bt

 






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