Nel 2024,
Alphabet Inc., la holding che controlla Google e numerose altre aziende
tecnologiche, ha investito ben 49,3 miliardi di dollari in ricerca e
sviluppo (R&S). Una cifra che non solo rappresenta un record storico per
l’azienda, ma che assume un peso ancora più rilevante se confrontata con gli
investimenti pubblici in ricerca di interi Stati. In Italia, ad esempio, il
ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, ha annunciato un finanziamento
di 1,5 miliardi di euro destinato agli enti pubblici di ricerca. Il
confronto è impietoso: Alphabet ha speso più di trentadue volte quanto
stanziato dallo Stato italiano, e per un solo anno. Questa differenza mette in
luce non solo uno squilibrio numerico evidente, ma soprattutto un divario
sistemico tra pubblico e privato, tra strategie nazionali e dinamiche globali,
tra l’agenda scientifica delle multinazionali e quella delle istituzioni.
La disparità
non è solo una questione di bilancio. Essa racconta due mondi profondamente
diversi. Da una parte Alphabet si muove all’interno di un mercato
ipercompetitivo, dove l’innovazione rappresenta una leva cruciale per la
crescita, la sopravvivenza e il dominio. In questo contesto, la ricerca non è
solo un costo, ma un investimento strategico. Il modello di business di
Alphabet è costruito sull’anticipazione delle tecnologie future, sull’assorbimento
di startup innovative e sulla capacità di dirigere risorse quasi illimitate
verso ambiti come l’intelligenza artificiale, la robotica, la salute digitale,
la realtà aumentata, il cloud computing e la mobilità autonoma. L’azienda ha
istituito divisioni specifiche, come X (la cosiddetta “fabbrica delle
moonshot”), che hanno il compito esplicito di esplorare soluzioni radicali ai
problemi globali. Questo approccio aggressivo e visionario è reso possibile
dalla potenza finanziaria accumulata negli anni e dal modello di governance
aziendale, che consente rapidità di azione, flessibilità strategica e libertà
progettuale.
Sul fronte
opposto, la situazione italiana – e più in generale quella di molti Paesi
europei – è molto diversa. Sebbene l’annuncio del ministro Bernini rappresenti
un segnale positivo, lo stanziamento di 1,5 miliardi di euro per il sistema
della ricerca pubblica italiana è solo un primo passo. Per anni, l’Italia ha
sofferto di una cronica sottofinanziamento della ricerca, con investimenti che
si sono mantenuti ben al di sotto della media OCSE. Le conseguenze sono note:
fuga dei cervelli, infrastrutture obsolete, difficoltà nell’attrarre fondi
europei, precariato accademico diffuso e scarso dialogo tra università,
industria e pubblica amministrazione. Il sistema appare spesso bloccato da
burocrazia, da una governance frammentata e da una visione politica di breve
respiro, che fatica a costruire una strategia di innovazione coerente e
duratura.
La distanza
che emerge tra Alphabet e il sistema pubblico italiano non è quindi solo
quantitativa ma qualitativa. Alphabet, come altri big tech globali, è ormai
capace di orientare l’innovazione tecnologica globale in modo autonomo. Le sue
scelte di investimento, i suoi progetti, persino le sue etiche tecnologiche,
influenzano direttamente la direzione della scienza e il futuro della società.
In settori come l’intelligenza artificiale o la biotecnologia, Alphabet è
spesso più avanti non solo rispetto agli Stati, ma anche rispetto ai consorzi
internazionali. L’azienda non si limita a seguire le tendenze: le crea.
Il problema
che emerge da questo scenario è duplice. Da un lato, la capacità degli Stati di
orientare le scelte strategiche in ambiti critici come la sanità, la sicurezza,
l’istruzione e l’ambiente rischia di indebolirsi a favore delle grandi
corporation, che operano secondo logiche di mercato e interessi privati.
Dall’altro, la marginalizzazione della ricerca pubblica compromette la
possibilità di garantire un sapere libero, pluralistico e indipendente. Quando
la produzione scientifica è dominata dai colossi privati, diventa più difficile
assicurare trasparenza, equità e responsabilità sociale. Il rischio è che temi
cruciali come la privacy dei dati, la sostenibilità ambientale, la giustizia
algoritmica o l’accessibilità alla salute vengano subordinati a logiche di
profitto e di controllo.
Il confronto
tra Alphabet e lo Stato italiano diventa, quindi, paradigmatico di una dinamica
più ampia. La globalizzazione della tecnologia ha creato nuovi centri di
potere, che sfuggono spesso alla regolazione democratica. Le multinazionali
tech non sono semplicemente aziende: sono ormai attori geopolitici, dotati di
risorse superiori a molti Stati sovrani, capaci di influenzare l’opinione
pubblica, le istituzioni e persino il diritto. In questo contesto, il ruolo
della ricerca pubblica è più che mai cruciale. Essa non può limitarsi a
rincorrere i privati, ma deve tornare a svolgere una funzione guida,
immaginando un’innovazione che non sia solo tecnicamente avanzata, ma anche
eticamente sostenibile, culturalmente inclusiva e socialmente utile.
Per fare
ciò, lo stanziamento di 1,5 miliardi non basta. È necessario un cambio di
paradigma. L’Italia ha bisogno di una strategia pluriennale per la ricerca, che
preveda investimenti strutturali, incentivi alla collaborazione tra enti
pubblici e imprese, semplificazione delle procedure burocratiche,
valorizzazione del capitale umano e costruzione di un ecosistema
dell’innovazione capace di trattenere e attrarre talenti. È necessario
potenziare le università, gli enti di ricerca, le infrastrutture digitali e i
poli tecnologici, trasformandoli in motori reali dello sviluppo territoriale.
Ma occorre
anche un’azione coordinata a livello europeo. Nessun Paese da solo può reggere
il confronto con i colossi globali. Serve un’Europa della scienza, in grado di
mettere in comune risorse, competenze e progetti per affrontare le sfide
epocali del nostro tempo: la transizione ecologica, la trasformazione digitale,
l’invecchiamento demografico, la cybersicurezza, l’energia sostenibile. Solo
con una visione condivisa, fondata sulla cooperazione e sulla responsabilità
collettiva, sarà possibile costruire un’alternativa credibile all’egemonia
delle big tech.
In
conclusione, il confronto tra Alphabet e lo stanziamento pubblico italiano per
la ricerca restituisce un’immagine nitida: viviamo in un’epoca in cui il potere
di plasmare il futuro appartiene sempre più a pochi attori privati globali. Ma
non è un destino inevitabile. Investire nella ricerca pubblica significa
investire nella libertà, nella democrazia, nella conoscenza come bene comune.
L’Italia ha bisogno di crederci davvero, e di agire di conseguenza, con
coraggio, visione e continuità. Solo così potrà colmare il divario e tornare a
essere protagonista, non spettatrice, delle trasformazioni del XXI secolo.
Fonte:
Statista, https://www.statista.com/statistics/507858/alphabet-google-rd-costs/
Facebook: https://www.facebook.com/photo/?fbid=1289381802553623&set=a.257996989025448
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