I dati mostrano
l’evoluzione del tax wedge medio – cioè l’incidenza
percentuale delle imposte sul lavoro rispetto al costo totale del lavoro – per
un lavoratore single senza figli, con un reddito pari al 100% del salario
medio, in un campione ampio di Paesi OCSE, nel periodo 2015–2024. Questo
indicatore è centrale per comprendere l’onere fiscale sul lavoro e il suo
impatto sull’economia, sull’occupazione e sulla competitività.
L’analisi mostra
un panorama piuttosto eterogeneo. I Paesi OCSE si collocano su un ampio
spettro, che va da chi applica una pressione fiscale minima, come Colombia e
Cile, fino a chi presenta carichi elevati, come Belgio e Germania. Nonostante
le differenze strutturali tra i sistemi fiscali, è possibile individuare alcune
tendenze comuni e differenziazioni regionali e temporali.
Cominciando dai
Paesi con le pressioni fiscali più alte, il Belgio resta
costantemente in cima alla classifica per tutta la serie temporale, pur mostrando
un leggero trend discendente, passando da un massimo del 55.28% nel 2015 a un
52.55% nel 2024. Ciò indica una certa volontà di alleggerire il peso fiscale
sul lavoro, pur restando su livelli molto elevati. La Germania,
anch’essa costantemente sopra il 47%, mostra una maggiore stabilità e solo un
lieve calo dal 2015 (49.45%) al 2024 (47.93%), confermando un modello fiscale
consolidato ma oneroso. Anche l’Austria, la Francia
e l’Italia si collocano stabilmente sopra il 45%, nonostante
leggere variazioni cicliche. Per l’Italia, ad esempio, il tax wedge scende in
modo significativo nel 2021 e 2022, toccando un minimo di 45.47%, prima di
risalire a 47.09% nel 2024, a indicare che eventuali riforme di alleggerimento
hanno avuto un effetto temporaneo.
L’Ungheria
rappresenta un caso interessante: parte da valori superiori al 49% nel 2015, ma
mostra un calo costante fino a stabilizzarsi al 41.15% dal 2021 in poi. Questo
suggerisce l’introduzione di politiche fiscali mirate alla riduzione della
pressione sul lavoro. Anche la Repubblica Ceca e la
Slovacchia restano su valori elevati, ma con segnali misti: in
Slovacchia il tax wedge cresce, passando da 41.52% nel 2015 a 42.56% nel 2024,
mentre in Repubblica Ceca si osserva un calo importante nel 2021, con
successiva ripresa fino al 40.95%.
Sul fronte
opposto, la Colombia si distingue come l’unico Paese con un
tax wedge pari a zero in tutta la serie storica. Questo dato, apparentemente
sorprendente, riflette probabilmente l’assenza di contributi sociali
obbligatori o imposte dirette sul reddito del lavoro formale, oppure una forte
presenza dell’economia informale. In ogni caso, segnala un’anomalia sistemica
nel confronto OCSE. Il Cile e il Messico
mostrano valori molto bassi (7% per il Cile, intorno al 20% per il Messico),
con leggere variazioni nel tempo, e rappresentano modelli fiscali leggeri,
almeno in termini di prelievo diretto sul lavoro.
I Paesi
nordici presentano un quadro più articolato. La Svezia,
pur mantenendosi sopra il 42% fino al 2022, mostra una discesa fino al 41.48%
nel 2024. La Norvegia si stabilizza intorno al 36%, mentre la
Danimarca si mantiene costante a circa 35.8–36.0%, segnalando una
certa stabilità nei modelli fiscali, compatibile con sistemi di welfare
generosi ma ben bilanciati. La Finlandia presenta una leggera
tendenza al calo tra il 2016 e il 2020, seguita da un nuovo incremento, con
valori attorno al 43%. Questi Paesi riescono a sostenere sistemi di welfare
robusti con prelievi relativamente stabili nel tempo, senza aumenti marcati.
Un caso
interessante è quello dell’Irlanda, che presenta un incremento
progressivo dal 2015 al 2021, passando dal 33.22% al 35.86%, per poi mostrare
un leggero calo. Questo andamento può riflettere una combinazione di
adeguamenti fiscali e dinamiche salariali. Il Regno Unito,
invece, registra un tax wedge stabile intorno al 30% fino al 2021, ma con una
discesa significativa nel 2024 (29.44%), che potrebbe riflettere politiche
post-Brexit orientate alla competitività del mercato del lavoro.
Tra le economie
anglosassoni, gli Stati Uniti mostrano una certa variabilità:
il tax wedge cala nel 2020 (27.21%) in coincidenza con la pandemia, per poi
risalire verso il 30% nel 2024. Questa dinamica riflette probabilmente
politiche fiscali di emergenza e successivi aggiustamenti. Il Canada,
invece, mantiene un tax wedge costante attorno al 31–32%, con piccole
oscillazioni.
I Paesi
baltici offrono un altro quadro interessante. L’Estonia presenta un
trend discendente fino al 2018, seguito da un graduale aumento fino al 2024
(40.59%). Anche la Lituania ha un andamento simile: dopo un
calo tra il 2015 e il 2019, mostra una crescita graduale. La Lettonia,
invece, si mantiene più stabile, con una lieve crescita nell’ultimo biennio.
Questi trend riflettono probabilmente aggiustamenti legati all’integrazione nel
mercato UE e riforme strutturali.
L’area
dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo, Grecia) si colloca su un
range tra il 38% e il 41%, con leggere oscillazioni ma senza trend netti di
riduzione. In Grecia si osserva un calo marcato fino al 2021 (37.31%), poi
seguito da una ripresa. In Spagna si nota una crescita moderata fino al 2024.
In Portogallo il tax wedge mostra una leggera flessione nel 2024 (39.37%) dopo
anni di relativa stabilità. Questi dati suggeriscono che le riforme fiscali in
questi Paesi, spesso soggetti a vincoli di bilancio stringenti, non hanno
inciso in modo radicale sul costo fiscale del lavoro.
Nel complesso,
l’Unione Europea (22 Paesi nell’OCSE) mostra un tax wedge
medio stabile, oscillando leggermente attorno al 42%, segno di una pressione
fiscale sul lavoro costante e omogenea tra i Paesi membri. Questo è coerente
con modelli di welfare simili e una pressione fiscale che finanzia servizi
pubblici estesi. Anche l’indicatore OCSE medio è piuttosto stabile, passando da
35.22% nel 2015 a 34.92% nel 2024. La stabilità media, però, nasconde
divergenze nazionali significative.
L’Australia
mostra un tax wedge relativamente basso rispetto alla media OCSE, ma con una
leggera crescita nel 2023–2024, fino al 29.58%. Questo suggerisce un’evoluzione
graduale della politica fiscale. In Nuova Zelanda, il tax
wedge è decisamente più contenuto, ma in crescita fino al 2023 (21.05%), con
una leggera flessione nel 2024. L’area del Pacifico conferma quindi una
tendenza a una fiscalità moderata sul lavoro, compatibile con economie
dinamiche e meno appesantite da vincoli sociali pesanti.
Nel blocco
asiatico, il Giappone presenta un tax wedge stabile tra il
32.29% e il 33.04%, segnalando coerenza nel tempo. La Corea del Sud
mostra invece una progressione chiara: dal 21.44% nel 2015 al 24.69% nel 2024.
Questo aumento potrebbe riflettere l’espansione dei contributi sociali o
l’aumento del ruolo dello Stato nel finanziamento del welfare. Israele,
con valori tra il 21% e il 24%, mostra un trend simile, ma con oscillazioni
maggiori.
L’Islanda
mantiene un tax wedge stabile intorno al 32%, in leggero calo nel tempo. Lussemburgo,
nonostante una flessione nel 2017, mostra una leggera tendenza alla crescita
nell’ultimo triennio, toccando il 41.23% nel 2023 prima di scendere a 40.35%.
Infine, la
Turchia si colloca su valori elevati per la sua area geografica, con
un tax wedge intorno al 38–39%. La stabilità di questi valori, in un contesto
economico altamente inflazionato, suggerisce una resilienza delle politiche
fiscali o un mancato adeguamento delle aliquote alla situazione economica.
In sintesi, i
dati mostrano una sostanziale stabilità del tax wedge medio a livello OCSE, ma
anche una forte eterogeneità tra i singoli Paesi. Mentre alcuni hanno tentato
di ridurre il peso fiscale sul lavoro per incentivare l’occupazione e aumentare
la competitività (come Ungheria, Italia, Estonia), altri lo hanno mantenuto
elevato per sostenere sistemi di welfare consolidati (Germania, Belgio,
Francia). In generale, il tax wedge si conferma un indicatore chiave per analizzare
le scelte politiche dei governi in materia di fiscalità, redistribuzione e
mercato del lavoro, e continuerà a essere al centro del dibattito economico nei
prossimi anni.
Fonte: OCSE
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