- Senza visione trascendente, la formazione tecnica produce dipendenti, non imprenditori capaci di trasformare il mondo.
- L’Occidente sopravvive solo tentando l’impossibile: fede, missione e imprese guidate da valori superiori.
- Servono business school eticamente orientate, religiosamente ispirate, capaci di generare organizzazioni grandi e durature.
Credo che se vogliamo incrementare la dimensione imprenditoriale non dobbiamo puntare sugli ingegneri o sui tecnici, perché se davvero la competenza tecnica fosse la base sufficiente per la creazione di nuove imprese, allora regioni come la Puglia, che vanta una scuola di ingegneria di buon livello e riconosciuta a livello nazionale, avrebbero dovuto diventare poli di sviluppo economico e industriale di primaria importanza, e invece così non è stato. Gli ingegneri, pur preparati, formati e capaci, finiscono per lavorare come dipendenti a stipendi che raramente superano i 1500 euro al mese, senza che l’idea di intraprendere una propria strada imprenditoriale, di creare nuove organizzazioni, di dare vita a processi trasformativi di lungo respiro li sfiori neppure. La loro formazione, preziosa sul piano tecnico, resta confinata all’ottimizzazione del materiale, al perfezionamento del processo, alla risoluzione puntuale di problemi specifici, senza che si sviluppi in loro la percezione di essere parte di una missione più grande, quella della trasformazione della realtà attraverso l’impresa. Per creare organizzazioni capaci di crescere, di diventare grandi, persino enormi, e quindi di salvare l’Occidente dagli attacchi molteplici che provengono da ogni parte del mondo, occorre infatti qualcosa di più della semplice preparazione tecnica. Serve un orientamento non soltanto all’umano, ma anche al trascendente. Solo un tale orientamento consente di concepire l’impresa non come un mero strumento di produzione e accumulazione, ma come un luogo di trasformazione del mondo, uno spazio in cui si manifesta la capacità dell’uomo di superare i limiti imposti dalla realtà, di varcare i confini del possibile, di porsi in relazione con ciò che è oltre. È per questo che, se davvero si vuole sviluppare un’imprenditorialità autentica e vitale, servono business school che non siano solo tecniche o manageriali, ma che siano anche eticamente orientate e religiosamente ispirate. Non si tratta di un generico richiamo alla morale, ma della consapevolezza che ogni attività di trasformazione economica e produttiva porta con sé una dimensione immateriale, valoriale, meta-realistica, che non si esaurisce nei calcoli di bilancio né nei piani di produzione. L’impresa è, nel suo nucleo più profondo, un atto di fede: fede in una visione, in una possibilità che ancora non esiste, in una missione che supera gli angusti limiti delle dotazioni di capitale esistente. Ed è proprio questa capacità di guardare oltre, di scommettere sull’impossibile, ciò che storicamente ha fatto grande l’Occidente. L’Europa, infatti, non è mai stata una terra ricca, né di popolazione né di risorse. Già ai tempi dei Romani e dei Greci le ricchezze erano altrove, in Oriente, e lì si sono rivolti tutti gli imperi che hanno tentato di appropriarsene, spesso cadendo proprio per questa ragione. L’Europa è sempre stata periferia della ricchezza mondiale, e se dalla rivoluzione industriale in poi ha contato qualcosa, se è riuscita a imprimere una svolta al corso della storia, è stato solo perché ha avuto il coraggio di tentare l’impossibile, di porsi il compito titanico di dominare le forze della natura, come già Francis Bacon indicava nei suoi scritti. Il dominio della natura, attraverso la scienza, la tecnica, la razionalizzazione weberiana del lavoro e della società, è stato l’unico strumento che l’Occidente aveva per sopravvivere e competere in un mondo dove le risorse materiali erano sempre collocate altrove. Ed è proprio quel tentativo, quella tensione verso l’impossibile, che costituisce ancora oggi l’unica via e soluzione per l’Occidente, se non vuole soccombere di fronte a imperi nuovi o rinnovati che sorgono a Oriente. Ma per tentare l’impossibile non bastano le competenze ingegneristiche, non basta la razionalità calcolante, non basta l’ottimizzazione dei processi. Serve una fede, una visione, una missione, un orientamento al trascendente che solo una società messianica può generare. È il messianismo, inteso come capacità di proiettarsi verso ciò che ancora non esiste e di vivere come se fosse già presente, che dà forza ai grandi processi storici e che permette alle comunità di creare istituzioni e organizzazioni capaci di mutare la realtà. Senza questa tensione verso l’oltre, l’Europa resta condannata a essere terra povera, marginale, campo di conquista per altri. La questione, dunque, non è solo economica o politica, ma profondamente culturale e spirituale. Le università, le scuole di ingegneria, i politecnici possono formare tecnici eccellenti, ma non possono generare imprenditori se non vengono accompagnati da istituzioni che insegnino a vedere oltre il profitto immediato, oltre l’efficienza produttiva, oltre il risultato misurabile. Solo business school capaci di ispirare, di collegare l’attività economica a un orizzonte etico e religioso, possono produrre leader in grado di costruire le grandi organizzazioni del futuro. Perché le grandi organizzazioni non nascono dalla somma di competenze tecniche, ma dalla capacità di incarnare una missione e di guidare altri in nome di quella missione. L’Occidente ha conosciuto la sua forza proprio in virtù di questa capacità, che si è espressa nelle scoperte scientifiche, nelle rivoluzioni industriali, nelle grandi imprese imprenditoriali che hanno segnato la modernità. Ogni volta che ha perso questo slancio, si è ridotto a un continente stanco, incapace di competere con realtà più giovani e più affamate. La sfida contemporanea è la stessa: o si recupera la capacità di tentare l’impossibile, radicandola in una fede che trascende l’immediato, oppure l’Occidente sarà destinato a un declino irreversibile. Questo significa che la formazione dei futuri imprenditori non può limitarsi a insegnare strategie di marketing o modelli di business, ma deve anche stimolare un immaginario, un’etica, una spiritualità dell’impresa. Occorre insegnare che l’impresa non è soltanto un luogo di produzione e consumo, ma un atto culturale, un gesto simbolico che trasforma il mondo e lo orienta verso un futuro diverso. E occorre ricordare che, nella storia, le società che hanno avuto una forte componente messianica, che hanno creduto di essere investite di una missione superiore, sono state quelle che hanno lasciato un segno duraturo. Senza questa convinzione profonda, senza questa fede nel trascendente, ogni sforzo rischia di ridursi a una gestione amministrativa, a un tecnicismo senza anima, a un pragmatismo sterile incapace di generare vera innovazione. L’Europa di oggi, e l’Italia in particolare, hanno bisogno di ritrovare questa forza messianica, di costruire scuole, istituzioni e imprese che non abbiano paura di dichiarare una visione alta e di perseguirla con coerenza. Solo così potremo sperare di generare imprenditori che non si accontentino di guadagnare 1500 euro al mese come dipendenti, ma che abbiano il coraggio di rischiare, di creare, di cambiare il mondo. Perché, alla fine, è questo che l’impresa autentica fa: trasforma il reale alla luce di un ideale che ancora non esiste, ma che può diventare possibile se qualcuno osa crederci davvero.
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