Un programma
radicale per il rinnovamento delle scienze sociali deve fondarsi su una critica
profonda e sistematica dei saperi tradizionali che hanno strutturato il
pensiero occidentale moderno. Questo programma si articola lungo tre direttrici
fondamentali che investono in maniera trasversale la scienza politica, il
diritto e le scienze aziendali. Il primo fronte è rappresentato da un attacco
deciso alla scienza politica, in particolare alla sua versione geopolitica. La
geopolitica, nella sua espressione classica, si fonda su un’ideologia di
sacralizzazione del territorio: ogni confine viene percepito come inviolabile,
ogni montagna come identitaria, ogni promontorio o scoglio come simbolo
imprescindibile della sovranità e della civilizzazione. Questa narrazione
costruisce una mitologia dei luoghi, attribuendo un valore assoluto a frammenti
di spazio che, in realtà, sono il risultato di decisioni politiche, di
conflitti storici, di pratiche culturali contingenti. L’obiettivo non è solo
quello di denunciare l’uso strumentale del discorso geografico, ma di
smascherarne la natura profondamente ideologica. Una nuova scienza politica
dovrebbe, al contrario, promuovere una visione post-territoriale dell’ordine
politico, in cui le relazioni sociali e le connessioni transnazionali abbiano
più rilevanza dei confini fisici. Questo implica ripensare il concetto di
sovranità, non più ancorato al possesso e al controllo di uno spazio
determinato, ma declinato come capacità di costruire reti di cooperazione,
solidarietà, scambio e mobilità. In tal senso, combattere con ogni mezzo l’idea
di geopolitica significa non solo rifiutare la guerra per il territorio, ma
anche proporre una nuova grammatica della convivenza politica fondata
sull’interdipendenza, sull’ospitalità e sulla mediazione.
Il secondo asse critico si rivolge al diritto, e in particolare
al modello del civil law che ha storicamente informato i sistemi giuridici
dell’Europa continentale. Il civil law si basa sulla codificazione rigida delle
norme, sull’autorità della legge scritta e su una struttura gerarchica delle
fonti giuridiche. Questo modello, sebbene abbia garantito per secoli coerenza e
stabilità normativa, mostra oggi limiti evidenti nell’adattarsi alla
complessità delle società contemporanee e alla fluidità delle relazioni
globali. Il mondo attuale richiede strumenti giuridici più flessibili, capaci
di recepire velocemente i cambiamenti sociali, tecnologici ed economici. Per
questo motivo, è necessario favorire un processo di transizione dal civil law
verso forme di ordinamento ibride, fondate sul soft power e sul soft law. Il
soft law, con le sue regole non vincolanti ma autorevoli, rappresenta uno
strumento più adatto a regolare ambiti in cui l’innovazione e la cooperazione
prevalgono sul conflitto e sulla coazione. Inoltre, l’adozione di modelli
giuridici basati sul soft power consente di valorizzare la dimensione
culturale, simbolica e reputazionale del diritto, spostando l’attenzione dal
comando all’influenza, dalla norma alla prassi, dalla coercizione alla
persuasione. Questa trasformazione del diritto deve però essere accompagnata da
una revisione delle istituzioni giuridiche, della formazione dei giuristi e dei
criteri di produzione normativa, in modo da creare un ecosistema giuridico che
non sia più centrato sullo Stato-nazione, ma su reti multilivello, organismi
transnazionali e comunità giuridiche fluide.
Il terzo ambito di intervento riguarda le scienze aziendali, e in
particolare l’urgente necessità di superare i modelli manageriali e contabili
ancora fortemente ancorati a logiche fordistiche, materialistiche e
finanziarie. In un’epoca in cui il valore economico non si produce più
unicamente attraverso la trasformazione di beni fisici, ma si genera in misura
crescente tramite le relazioni, le conoscenze, la creatività e l’innovazione,
risulta indispensabile dotarsi di strumenti teorici e operativi capaci di
riconoscere e misurare queste nuove fonti di valore. Occorre dunque sviluppare
modelli manageriali che pongano al centro l’economia delle relazioni, intesa
come l’insieme delle dinamiche cooperative, comunicative e fiduciarie che
legano persone, team, organizzazioni e reti. In parallelo, è necessario
costruire sistemi contabili in grado di rappresentare gli intangibili, il
know-how, il capitale umano e relazionale, non come costi accessori o valori
residuali, ma come elementi centrali della creazione di valore. Questa
rivoluzione contabile implica una profonda revisione dei principi che regolano
la redazione dei bilanci aziendali. I documenti ufficiali delle imprese
dovrebbero infatti includere allegati specifici in cui siano esplicitamente
valorizzati gli asset immateriali, in conformità con i principi contabili
internazionali (IAS). L’introduzione di questi nuovi strumenti contabili non ha
solo una funzione informativa, ma anche politica e culturale: serve a
riconoscere ufficialmente che il capitale più prezioso delle organizzazioni
contemporanee risiede nella loro capacità di attivare e mantenere relazioni
significative, di apprendere e innovare costantemente, di generare fiducia e
senso condiviso tra i diversi attori coinvolti. Inoltre, questa riforma
contribuirebbe a colmare il divario crescente tra la rappresentazione contabile
delle aziende e la loro realtà operativa, evitando che i bilanci continuino a
offrire una visione parziale, distorta o obsoleta dei processi economici in
corso.
Queste tre linee di intervento, seppur distinte nei loro ambiti
disciplinari, condividono una visione di fondo: l’urgenza di superare i
paradigmi rigidi, territoriali, formalistici e materialistici che hanno
dominato la modernità, per aprire le scienze sociali a una comprensione più
dinamica, relazionale e complessa del mondo contemporaneo. La politica non può
più fondarsi sul controllo del territorio, ma deve reinventarsi come arte della
connessione e della mediazione. Il diritto non può più irrigidirsi nella legge
scritta, ma deve diventare un linguaggio flessibile, capace di adattarsi e
interpretare le trasformazioni sociali. L’economia non può più essere ridotta a
contabilità del tangibile, ma deve riconoscere il valore del simbolico, del
relazionale, dell’immateriale. Solo un simile ripensamento radicale delle
scienze sociali potrà offrire strumenti adeguati per comprendere e governare le
sfide del nostro tempo, superando l’inerzia istituzionale e l’illusione
tecnocratica che hanno troppo spesso impedito un’autentica innovazione teorica
e pratica. In questo senso, il programma qui delineato non è solo una proposta
accademica, ma un manifesto per una nuova cultura critica, capace di rompere i
dogmi disciplinari e costruire un sapere all’altezza della complessità globale.

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