L’indicatore
“Adjusted savings: natural resources depletion (% of GNI)” misura l’impatto
dello sfruttamento delle risorse naturali sulla sostenibilità economica di un
Paese. Rappresenta la quota del reddito nazionale lordo che viene erosa dal
depauperamento di risorse non rinnovabili, come combustibili fossili, minerali
e legname, e quindi fornisce una misura del grado in cui la crescita economica
corrente si basa su una riduzione del capitale naturale. L’analisi dei dati dal
2014 al 2021 evidenzia grandi differenze tra Paesi, regioni e classi di
reddito, con tendenze in parte divergenti che riflettono dinamiche economiche,
politiche e ambientali.
A livello
mondiale si osserva un andamento altalenante. Dopo una riduzione dal 2014 al
2016, con valori passati dall’1,51 allo 0,72 per cento del GNI, vi è stata una
nuova crescita fino al 2018 e 2019 (1,19 e 1,04 per cento), una contrazione nel
2020 (0,69) e infine un ritorno a livelli simili al 2014 nel 2021 (1,51).
Questo andamento mostra come la pressione sulle risorse sia fortemente
influenzata sia dai cicli economici globali sia dalle oscillazioni dei prezzi
delle materie prime. L’anno 2020, caratterizzato dalla pandemia e da una forte
contrazione della domanda, ha ridotto temporaneamente il ritmo di sfruttamento,
ma la ripresa successiva ha riportato in alto l’indicatore.
Le differenze
regionali sono significative. L’Africa subsahariana mostra valori
sistematicamente elevati, con un picco nel 2021 superiore al 6 per cento del
GNI. Ciò segnala una dipendenza persistente dallo sfruttamento delle risorse
naturali, in particolare petrolio, minerali e legname, che costituiscono la
base delle esportazioni di molti Paesi africani. Alcuni esempi sono
emblematici: Angola oscilla tra il 10 e il 26 per cento, Nigeria tra l’1 e
quasi il 4, Zambia raggiunge addirittura il 21 per cento nel 2021, Congo e
Guinea-Bissau rimangono su livelli a doppia cifra. In questi casi, lo
sfruttamento eccessivo delle risorse è legato a economie poco diversificate e
spesso a sistemi politici fragili, dove la rendita estrattiva prevale sugli
investimenti sostenibili.
In Medio Oriente
e Nord Africa l’andamento è simile, con valori molto elevati nei Paesi ricchi
di petrolio e gas. L’Oman, ad esempio, supera il 27 per cento nel 2014 e sfiora
il 24 nel 2021; il Bahrain mostra oltre il 22 per cento nel 2014; il Kuwait
oltre il 12; l’Arabia Saudita oltre il 13 nel 2014 e ancora oltre il 9 nel
2018. Questi numeri riflettono economie fortemente legate all’esportazione di
idrocarburi e con una quota rilevante di entrate fiscali provenienti da tale
settore. È evidente come la ricchezza petrolifera garantisca alti livelli di
reddito ma al costo di un rapido consumo del capitale naturale. Al contrario,
Paesi della stessa area con minori risorse estrattive, come Marocco, Tunisia o
Giordania, presentano valori molto bassi, inferiori all’1 per cento, mostrando
che laddove l’economia si fonda su servizi, turismo o industria leggera la
pressione sul capitale naturale è contenuta.
In America
Latina e nei Caraibi si osserva un quadro diversificato. Alcuni Paesi come
Brasile, Messico e Argentina mostrano valori generalmente bassi, intorno all’1
o 2 per cento, ma con crescite episodiche legate ai cicli di produzione ed
esportazione di petrolio e minerali. Altri, come Bolivia, Ecuador, Suriname o
Guyana, presentano invece livelli elevatissimi in determinati anni, fino a
superare il 10 o addirittura il 30 per cento del GNI, segnalando un’intensa
dipendenza dalle risorse naturali. Il caso della Guyana è particolarmente
interessante: a seguito della scoperta e sfruttamento dei nuovi giacimenti
petroliferi offshore, il dato esplode fino a quasi il 30 per cento nel 2021,
mostrando l’effetto immediato della trasformazione in economia petrolifera. Al
contrario, Paesi più orientati ai servizi, come Costa Rica o Panama, restano su
livelli prossimi allo zero.
In Asia emergono
casi di rapido sfruttamento delle risorse. La Mongolia alterna valori molto
elevati, spesso superiori al 10 per cento, segnalando la centralità del settore
minerario. Il Kazakistan presenta andamenti simili, con un picco del 15 per
cento nel 2021. L’Uzbekistan cresce dal 7 al quasi 14 per cento, riflettendo
una dipendenza crescente dall’estrazione di gas e minerali. L’India e la Cina,
pur essendo giganti industriali, mostrano invece livelli relativamente bassi,
inferiori al 2 per cento, segnalando che la loro crescita economica, pur
energivora e inquinante, non si traduce in un esaurimento immediato delle
risorse interne su larga scala, ma si appoggia anche su importazioni.
L’Australia, grande esportatore di minerali e combustibili fossili, presenta un
incremento marcato: dal 1,8 per cento del 2014 al 6,2 del 2021, con un trend di
crescita costante che riflette il boom minerario e la domanda asiatica.
In Europa, i
valori sono generalmente molto bassi, spesso prossimi allo zero. Paesi come
Germania, Francia, Italia o Regno Unito si collocano ben al di sotto dello 0,1
per cento nella maggior parte degli anni. Questo riflette economie
post-industriali, basate su servizi avanzati e con limitato sfruttamento di
risorse naturali interne. L’eccezione è rappresentata da Paesi esportatori di
idrocarburi come la Norvegia, che mostra oscillazioni tra il 3 e il 7 per
cento, e dalla Russia, che rimane su valori più elevati, tra il 4 e il 9 per
cento, per via della forte dipendenza dall’estrazione di gas e petrolio. Anche
la Polonia e la Repubblica Ceca, a causa dell’uso intensivo del carbone,
presentano valori leggermente superiori alla media europea, ma comunque
contenuti.
Un aspetto
rilevante è l’andamento delle categorie di reddito. I Paesi ad alto reddito
mantengono valori molto bassi, raramente superiori all’1 per cento, mostrando
come lo sfruttamento diretto delle risorse non sia più il motore principale
della crescita economica. I Paesi a basso reddito invece presentano livelli sistematicamente
più alti, con una media superiore al 7 per cento, e un picco del 12 per cento
nel 2021. Ciò conferma che le economie più fragili si basano ancora sullo
sfruttamento intensivo delle risorse naturali, con rischi significativi di
insostenibilità. I Paesi a medio reddito oscillano tra l’1 e il 2 per cento, ma
con forti differenze interne: alcune economie si comportano come quelle ad alto
reddito, altre come quelle a basso reddito.
Inoltre, i dati
rivelano la vulnerabilità dei Paesi fragili e in conflitto. La Repubblica
Democratica del Congo registra un valore straordinariamente alto, oltre il 33
per cento nel 2021, segnalando un drenaggio enorme di ricchezza naturale non
compensato da investimenti. La Liberia mostra valori oltre il 20 per cento in diversi
anni. La Somalia, con valori tra il 10 e il 19 per cento, riflette anch’essa il
costo economico dello sfruttamento delle risorse in assenza di istituzioni
solide. Questi casi indicano come l’estrazione di risorse in contesti instabili
non favorisca lo sviluppo, ma anzi lo ostacoli attraverso dinamiche di
conflitto e degrado ambientale.
Un dato di
rilievo è anche l’impatto della pandemia. Nel 2020 quasi tutte le regioni hanno
visto una riduzione dell’indicatore, segno che la contrazione economica ha ridotto
temporaneamente l’estrazione. Tuttavia, nel 2021 i valori sono spesso risaliti
in modo brusco, in alcuni casi con incrementi mai registrati prima. È il caso
della Repubblica Democratica del Congo, della Zambia, della Guyana e del Mali,
che segnano impennate spettacolari. Questo andamento dimostra come la ripresa
economica post-pandemia sia stata accompagnata da un ritorno intensivo allo
sfruttamento delle risorse.
Nel complesso,
l’analisi di questi dati consente alcune riflessioni di fondo. Primo, lo sfruttamento
delle risorse naturali rimane altamente diseguale nel mondo, con Paesi ad alto
reddito ormai poco dipendenti da tali attività e Paesi a basso reddito che
invece ne fanno il pilastro della loro economia. Secondo, il modello di
sviluppo basato sulle risorse naturali appare intrinsecamente instabile: i
valori oscillano in funzione dei prezzi globali e dei cicli economici, con
effetti forti e rapidi sui bilanci nazionali. Terzo, vi è una relazione chiara
tra governance e sostenibilità: Paesi con istituzioni solide riescono a
contenere il depauperamento, mentre quelli fragili ne subiscono un impatto
devastante. Infine, il dato globale segnala che la transizione verso
un’economia sostenibile è ancora lontana: il fatto che nel 2021 il mondo
presenti un valore dell’1,51 per cento, identico a quello del 2014, mostra che
nonostante progressi in alcuni Paesi il saldo complessivo non è migliorato.
In sintesi, i
dati sulla “Adjusted savings: natural resources depletion” raccontano un mondo
diviso, dove le economie avanzate hanno ridotto al minimo lo sfruttamento
interno, mentre le economie fragili o dipendenti da risorse restano
intrappolate in un ciclo estrattivo. L’obiettivo delle politiche di sviluppo
sostenibile dovrebbe essere duplice: da un lato aiutare i Paesi più poveri a
diversificare le economie, dall’altro garantire che le rendite derivanti dalle
risorse naturali siano investite in capitale umano, infrastrutture e tecnologie
che assicurino un futuro meno dipendente dall’estrazione. Solo così sarà possibile
trasformare il capitale naturale in un motore di sviluppo inclusivo e duraturo,
riducendo l’impatto negativo che oggi pesa sulle generazioni future.
Fonte: World Bank
Link: https://databank.worldbank.org/source/environment-social-and-governance-(esg)-data#
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