Le aziende sostenute dai fondi corrono più veloci: attivo patrimoniale +82% contro il 14% delle non partecipate
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Crescita record dopo l’ingresso dei fondi. Le imprese partecipate da private
equity registrano un incremento medio dell’attivo
patrimoniale dell’82%, contro il 14% delle aziende non partecipate. Il
fatturato cresce del 25% e
l’occupazione del 17,6% nei due
anni successivi all’investimento.
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Private equity come motore di sviluppo sostenibile. Lo studio Mediobanca–LIUC–AIFI mostra
che il capitale di rischio accelera la crescita reale
delle mid cap italiane, migliorando governance, capacità d’investimento e
solidità patrimoniale, senza eccessivo ricorso alla leva finanziaria
(PFN/EBITDA medio 2,4x).
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Un modello italiano prudente ma efficace. I fondi operano come partner industriali, non solo finanziari, favorendo
innovazione, internazionalizzazione e passaggi generazionali. In vent’anni il
private equity ha contribuito a trasformare il tessuto
produttivo nazionale,
sostenendo la competitività delle imprese sui mercati globali.
Negli ultimi vent’anni, il private equity si è
affermato come uno dei motori più dinamici della crescita industriale italiana,
trasformando il volto delle medie imprese e contribuendo in modo concreto al
rafforzamento del tessuto produttivo nazionale. In un contesto economico
caratterizzato da volatilità, transizione digitale e sfide globali sempre più
complesse, i fondi di investimento hanno saputo offrire non solo risorse
finanziarie, ma anche competenze manageriali e visione strategica, diventando
partner attivi dei processi di sviluppo aziendale. I risultati dello studio
condotto da Mediobanca, LIUC Business School e AIFI lo confermano con chiarezza: le
imprese partecipate da fondi di private equity registrano una crescita del fatturato del 25% nei due anni successivi
all’investimento, contro il 9% delle non partecipate, e un incremento dell’occupazione del 17,6%. Ancora più
significativo è l’aumento dell’attivo
patrimoniale, cresciuto dell’82%
rispetto al 14% delle aziende non partecipate, a testimonianza di un
rafforzamento strutturale e di una maggiore capacità di investimento. L’analisi,
basata su un campione di oltre 300 imprese partecipate e 650 di controllo,
dimostra che il private equity agisce come un acceleratore di crescita sostenibile,
capace di migliorare governance, internazionalizzazione e competitività. Le
aziende oggetto di investimento, pur partendo da una solida base
economico-finanziaria, beneficiano dell’apporto di capitali e know-how, che ne
potenzia le performance senza compromettere l’equilibrio patrimoniale. In
Italia, il modello prevalente si distingue per un approccio prudente e
collaborativo, dove il fondo agisce come alleato industriale più che come
semplice finanziatore. In un momento in cui il sistema produttivo nazionale è
chiamato ad affrontare sfide cruciali — dalla digitalizzazione alla
sostenibilità — il private equity rappresenta una leva fondamentale per
accompagnare le imprese verso una crescita solida, innovativa e duratura.
Le imprese
partecipate da fondi crescono attivo patrimoniale dell’82% contro il 14% delle
non partecipate. Nel cuore
dell’economia italiana, tra le aziende che costituiscono l’ossatura della manifattura
nazionale, si muove da vent’anni un attore discreto ma determinante: il private
equity. Una ricerca condotta da Mediobanca, LIUC Business School e AIFI
racconta, con l’aiuto dei numeri, come questo strumento finanziario abbia
contribuito a trasformare il volto delle medie imprese italiane, spingendole
verso una crescita più strutturata, una governance più moderna e una maggiore
apertura ai mercati internazionali. L’indagine, intitolata Private Equity e
Mid Cap: vent’anni di storia, copre un arco temporale che va dal 2001 al
2021 e offre per la prima volta una visione di lungo periodo sull’impatto del
private equity in Italia. Basata sull’incrocio dei database di Mediobanca e del
Private Equity Monitor, la ricerca prende in esame 319 imprese che hanno ricevuto
investimenti da fondi di private equity e le confronta con un campione di 659
aziende simili ma non partecipate. Il risultato è una fotografia nitida di come
il capitale di rischio, quando si sposa con la capacità imprenditoriale, possa
diventare una leva di crescita reale. Le imprese analizzate sono le tipiche
medie aziende italiane: tra 50 e 499 dipendenti, un fatturato tra 19 e 415
milioni di euro e proprietà indipendente. Un universo che da sempre costituisce
la spina dorsale del tessuto produttivo nazionale, ma che oggi è chiamato a
fronteggiare sfide complesse: transizione digitale, sostenibilità, competizione
globale e passaggi generazionali. È qui che il private equity entra in gioco
come partner industriale più che finanziario, capace di offrire non solo
capitali, ma anche competenze gestionali e una rete di relazioni strategiche.
Chi investe e dove.
Il 70% delle operazioni analizzate è stato condotto da operatori italiani, ma
negli ultimi anni cresce la presenza di investitori stranieri, segno di una
maggiore attrattività del mercato nazionale. Geograficamente, il baricentro
resta nel Nord Italia, con Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte a fare
da poli principali. I settori più coinvolti sono quelli dei prodotti
industriali (45%), dei beni di consumo (25%) e del food & beverage (15%), i
comparti che incarnano la tradizione manifatturiera e l’eccellenza del made in
Italy. Le aziende partecipate dai fondi sono mediamente solide già prima
dell’ingresso dell’investitore: fatturato medio di 53 milioni, marginalità
operativa del 12,7% e un indebitamento molto contenuto. Quasi la metà del loro
giro d’affari proviene dall’estero, un dato che conferma la naturale vocazione
internazionale delle mid cap italiane.
Un’accelerazione visibile
nei numeri. I risultati post-investimento
parlano chiaro. Nei due anni successivi all’ingresso del fondo, il fatturato
medio delle imprese partecipate cresce del 25%, contro un modesto +9% delle
aziende non partecipate. L’occupazione aumenta del 17,6% rispetto all’1,3% del
gruppo di controllo, mentre il totale attivo — cioè la dimensione patrimoniale
dell’impresa — balza dell’82% a fronte del 14% delle altre. È la dimostrazione
che il private equity in Italia non si limita a finanziare, ma contribuisce a
far crescere la struttura produttiva e a creare posti di lavoro. Non tutti gli
indicatori però mostrano lo stesso slancio. I margini operativi e la
produttività rimangono stabili, segno che gli effetti del private equity si
concentrano inizialmente sulla crescita dimensionale e sugli investimenti, più
che sull’efficienza immediata. Anche l’indebitamento aumenta, come è
fisiologico nelle operazioni di leveraged buy-out, ma resta sotto controllo: il
rapporto medio tra posizione finanziaria netta ed EBITDA è di 2,4x, ben al di
sotto della soglia di rischio.
La prova statistica.
Per misurare con precisione l’impatto del private equity, i ricercatori hanno
condotto un’analisi econometrica basata su regressioni lineari. Il risultato
conferma quanto emerso dai dati descrittivi: le imprese partecipate crescono
mediamente del 16,5% in più in termini di fatturato rispetto al campione di
controllo, e del 58% in più in termini di totale attivo. In altre parole, il
capitale di rischio rappresenta un fattore di accelerazione della crescita. Curiosamente,
le aziende più indebitate prima dell’investimento mostrano una crescita
leggermente inferiore, a dimostrazione che la solidità finanziaria di partenza
resta un elemento chiave per sfruttare appieno il supporto dei fondi. L’effetto
positivo del private equity, infatti, si manifesta con maggiore intensità nelle
imprese già dinamiche e ben gestite, dove l’apporto manageriale e finanziario
può agire da moltiplicatore.
Un modello prudente ma
efficace. Lo studio colloca l’esperienza
italiana all’interno di un quadro internazionale più ampio. Rispetto ai Paesi
anglosassoni, i fondi italiani fanno un uso più contenuto della leva
finanziaria e preferiscono intervenire in partnership con imprenditori e
famiglie, piuttosto che sostituirsi completamente alla proprietà. È un modello
più collaborativo e di lungo periodo, in cui il fondo diventa un alleato nella
crescita e nella riorganizzazione aziendale. Questo approccio prudente non
limita i risultati: al contrario, rafforza la sostenibilità delle operazioni.
Le aziende partecipate non mostrano segni di stress finanziario e continuano a
investire in innovazione, capacità produttiva e capitale umano. Inoltre,
l’apertura ai fondi contribuisce spesso a migliorare la governance e ad
attrarre manager di livello, favorendo il passaggio da una gestione familiare a
una più strutturata e meritocratica.
Internazionalizzazione e
governance: le nuove frontiere. Nonostante la quota di
export resti stabile dopo l’ingresso del fondo, il dato medio di quasi il 50%
del fatturato estero indica che le imprese target sono già fortemente
internazionalizzate. Il contributo del private equity, in questi casi, non è
tanto nell’apertura di nuovi mercati quanto nel consolidamento delle posizioni
già acquisite, nella diversificazione dei canali e nell’adozione di strategie
più sofisticate di espansione. Il tema della governance emerge come uno degli
ambiti più promettenti. L’ingresso di un investitore istituzionale impone
maggiore trasparenza, disciplina finanziaria e pianificazione strategica.
Questo porta le aziende a dotarsi di consigli di amministrazione più
competenti, a separare ruoli gestionali e proprietari e a definire obiettivi di
medio-lungo periodo misurabili. È un cambiamento culturale profondo, che spesso
si traduce in una maggiore attrattività verso altri investitori e in un
miglioramento complessivo della reputazione aziendale.
Un settore in crescita, ma
ancora da consolidare. La ricerca segnala anche una
tendenza strutturale: l’aumento della presenza di fondi esteri nel capitale
delle imprese italiane. Se da un lato questo porta nuove competenze e capitali,
dall’altro pone la sfida di rafforzare la capacità dei player nazionali di
competere in un mercato sempre più globale. L’Italia, infatti, resta un terreno
fertile per il private equity grazie al gran numero di medie imprese familiari,
ma soffre ancora di un gap dimensionale nei fondi domestici rispetto ai colossi
internazionali. Secondo gli autori dello studio, la prossima fase di sviluppo
del settore passerà dalla capacità di allungare l’orizzonte temporale degli
investimenti e di misurare gli effetti di lungo periodo, in particolare su
produttività, redditività e sostenibilità. Si apre inoltre il tema della
specializzazione dei fondi, dell’uso dell’M&A come leva di crescita e del
ruolo del private equity nella transizione digitale ed energetica del sistema
industriale italiano.
Vent’anni che hanno
cambiato il volto delle Mid Cap. Il bilancio complessivo
che emerge dal rapporto è positivo. In vent’anni, il private equity ha mostrato
di poter essere un alleato strategico delle imprese italiane, capace di
coniugare finanza e industria, tradizione e innovazione. Ha sostenuto la
crescita di aziende solide, spesso familiari, aiutandole a superare la
dimensione artigianale e ad affrontare mercati più competitivi. Non è un caso
se le società partecipate dai fondi hanno registrato una crescita più rapida
del fatturato, del patrimonio e dell’occupazione rispetto alle loro omologhe
indipendenti. È la prova che, quando capitale e competenze si incontrano, il
risultato non è solo un guadagno finanziario, ma un reale rafforzamento del
tessuto produttivo del Paese. In un’epoca di trasformazioni epocali —
tecnologiche, ambientali e demografiche — il private equity potrebbe continuare
a giocare un ruolo chiave. Se saprà mantenere la sua vocazione industriale e la
capacità di lavorare accanto agli imprenditori, resterà uno dei motori più
solidi e silenziosi della competitività italiana. Vent’anni di storia lo
dimostrano: dietro molte delle medie imprese che oggi crescono, innovano e si
internazionalizzano, c’è spesso un fondo di private equity che ha creduto nel
loro potenziale e le ha aiutate a trasformarlo in realtà.
Dati dell’AIFI
relativi al private equity italiano 
Il grafico in Figura 1 mostra l’evoluzione dei
capitali raccolti nel private equity italiano dal 2021 al primo semestre del
2025, evidenziando un andamento altalenante ma complessivamente positivo fino
al 2024, seguito da una marcata contrazione nel 2025. Dopo una raccolta di 5,7
miliardi nel 2021, il 2022 segna un picco con oltre 5,9 miliardi di euro,
sostenuto da un secondo semestre particolarmente vivace (4,2 miliardi). Nel
2023 il totale scende a 3,8 miliardi, riflettendo un rallentamento del mercato,
probabilmente legato al contesto macroeconomico e al rialzo dei tassi
d’interesse che ha inciso sulle operazioni di fundraising. Il 2024 segna una
ripresa significativa, con 6,7 miliardi di euro raccolti, grazie anche al
ritorno di grandi investitori istituzionali e all’ottimismo verso i fondi
italiani. Tuttavia, nel primo semestre 2025 si osserva un nuovo calo, con
appena 1,7 miliardi di euro raccolti, segnale di un rallentamento generalizzato
del mercato, in linea con le difficoltà globali nel reperire capitali per nuovi
veicoli di investimento. In sintesi, la raccolta mostra una dinamica ciclica:
dopo la forte espansione del biennio 2021-2022 e la ripresa del 2024, il 2025
evidenzia una fase di pausa. La tenuta del settore dipenderà dalla capacità dei
gestori di attrarre nuovi capitali in un contesto ancora incerto, ma con
fondamentali industriali solidi (Figura 1).
Figura 1. Private Equity: raccolta di capitali in calo nel 2025 dopo il picco record del 2024. Fonte: AIFI.
Nel primo semestre del 2025 la composizione delle fonti di capitale raccolto nel mercato del private equity italiano riflette una forte presenza istituzionale e pubblica. Il 26% dei fondi proviene da enti pubblici e fondi istituzionali, a conferma del ruolo centrale delle iniziative di sostegno pubblico e della cooperazione con fondi sovranazionali e veicoli di investimento partecipati dallo Stato. Seguono i fondi di fonti e i fondi pensione con il 13% e il 12%, che rappresentano investitori di lungo periodo alla ricerca di rendimenti stabili e diversificati. Il contributo del settore bancario rimane rilevante (11%), mentre family office e investitori individuali — entrambi al 10% — testimoniano una crescente partecipazione di capitali privati e patrimoniali. Più marginale il ruolo delle assicurazioni (7%) e degli investitori industriali (5%), che mantengono un profilo selettivo, concentrandosi su operazioni legate ai propri settori di attività. Le fondazioni (5%) e la categoria “altro” (1%) completano il quadro, indicando una minore ma comunque significativa varietà di fonti. Nel complesso, la raccolta del 2025 evidenzia un mercato ancora fortemente trainato da soggetti istituzionali, ma con una diversificazione in crescita verso investitori privati, segnale di un ecosistema del private equity italiano sempre più maturo e integrato con capitali differenti (Figura 2).
Figura 2. Nel 2025 il 26% dei capitali del
private equity arriva da fondi pubblici e istituzionali.  
Nel periodo 2021–primo semestre 2025, la
distribuzione della raccolta per tipologia di investimento target nel private
equity italiano mostra una notevole variabilità, ma con alcune tendenze
strutturali evidenti. I dati indicano che la categoria buy out resta predominante, pur con oscillazioni
significative: rappresenta oltre la metà del totale nel 2021 (52%) e raggiunge
il 60% nel 2022, prima di scendere al 42% nel 2023 e tornare al 59% nel 2025.
Ciò suggerisce che, nonostante la crescente attenzione verso investimenti in
fase iniziale, il mercato italiano rimane fortemente orientato verso operazioni
di acquisizione e consolidamento. L’early stage
— che comprende gli investimenti in startup e imprese innovative — mostra un
andamento in crescita costante: dal 18% nel 2021 al 35% nel primo semestre
2025, segnale di un interesse crescente per l’innovazione e le nuove
tecnologie. L’expansion capital, invece,
oscilla fortemente, passando dal 6% nel 2021 al picco del 26% nel 2024 per poi
ridursi bruscamente al 2% nel 2025, riflettendo la maggiore prudenza degli
investitori nel finanziare fasi di espansione in un contesto economico incerto.
Infine, la componente infrastrutture e altri
investimenti rimane marginale ma stabile (tra il 10% e il 24%), a
testimonianza di un interesse costante verso progetti di lungo termine, pur
senza rappresentare una quota significativa del totale (Figura 3).
 
Figura 3. Nel 2025 tornano protagonisti i buy
out: cala l’expansion, cresce l’early stage. 
Nel periodo compreso tra il primo semestre 2021 e
il primo semestre 2025, l’attività di investimento nel private equity italiano
mostra un andamento caratterizzato da forti oscillazioni. Dopo un avvio
moderato nel 2021, con 253 operazioni e un ammontare complessivo di 4,5
miliardi di euro, il 2022 segna un picco eccezionale: 338 operazioni, 271
società coinvolte e oltre 10,8 miliardi di euro investiti, trainati da grandi
deal e da una congiuntura finanziaria favorevole. Nel 2023 si osserva un deciso
rallentamento, con la discesa dell’ammontare investito a 3,2 miliardi
nonostante il numero di operazioni resti elevato (346), segno di una frammentazione
in operazioni di minore entità. Nel 2024 l’attività torna a crescere
moderatamente, con 4,5 miliardi di euro e un livello di operatività più
stabile. Il 2025 conferma la ripresa, raggiungendo 5,2 miliardi di euro
investiti, 370 operazioni e 244 società coinvolte. Nel complesso, i dati
indicano una resilienza del mercato italiano del private equity, capace di
adattarsi a fasi macroeconomiche altalenanti. L’andamento del 2025 suggerisce
una rinnovata fiducia degli investitori, probabilmente favorita da prospettive
più solide di crescita e da un ritorno di interesse verso operazioni di media
dimensione (Figura 4).
Figura 4. Nel 2025 riparte il private equity:
investimenti a 5,2 miliardi e 370 operazioni nel semestre
L’analisi dell’evoluzione dell’ammontare investito nel private equity per dimensione dell’operazione tra il 2021 e il primo semestre 2025 mette in luce una forte volatilità, in particolare per i large e mega deal. Nel 2021, gli investimenti di piccola e media dimensione (2,1 miliardi di euro) risultano sostanzialmente allineati ai grandi deal (2,5 miliardi). Tuttavia, nel 2022 si registra un balzo eccezionale dei large e mega deal, che raggiungono 8,3 miliardi di euro, segnale di un anno caratterizzato da operazioni straordinarie di grande scala e da una forte disponibilità di capitale sul mercato. Il 2023 segna invece un drastico ridimensionamento: i grandi deal scendono a soli 860 milioni, mentre le operazioni di dimensione medio-piccola restano stabili sopra i 2,3 miliardi, confermando la resilienza del segmento più diffuso del tessuto industriale italiano. Nel 2024 e nel 2025 si osserva una graduale ripresa dei grandi investimenti (oltre 2 miliardi nel 2025), ma senza tornare ai livelli eccezionali del 2022. Nel complesso, i dati mostrano che il mercato italiano del private equity si sta consolidando attorno a operazioni di taglio medio, più diffuse e sostenibili, mentre i grandi deal restano episodici e fortemente influenzati dalle condizioni macroeconomiche e dai grandi fondi internazionali (Figura 5).
Figura 5. Private equity: tornano gli
investimenti di media dimensione, ma i mega deal restano un’eccezione.
Nel primo semestre del 2025, il panorama degli
investimenti nel private equity italiano mostra un’interessante dinamica tra
operatori domestici e internazionali. Sebbene gli operatori internazionali
rappresentino la maggioranza in termini di numero di operazioni (77%), sono i
fondi domestici a detenere il primato in termini di ammontare investito, con il
67% del capitale complessivo. Questo evidenzia una crescente forza finanziaria
dei gestori italiani, che realizzano meno operazioni ma di dimensioni
mediamente più elevate. Gli investitori internazionali, invece, mantengono un
ruolo molto attivo sul mercato italiano, contribuendo a oltre tre quarti delle
transazioni, ma con un peso economico inferiore (33% dell’ammontare
complessivo). Ciò suggerisce una strategia focalizzata su operazioni di minor
scala o su segmenti specifici, come startup o imprese early stage, dove il
capitale richiesto è più contenuto. Nel complesso, i dati confermano
un’evoluzione positiva del settore domestico, che consolida la propria capacità
di attrarre capitali e gestire investimenti rilevanti, pur in un contesto
fortemente globalizzato. La combinazione di competenze locali e partecipazione
internazionale rafforza ulteriormente l’ecosistema del private equity italiano,
rendendolo sempre più competitivo e integrato con i mercati esteri (Figura 6).
Figura 6. Private equity 2025: meno operazioni ma
più capitali dai fondi italiani, cresce il peso dei player esteri
Nel primo semestre del 2025 l’ammontare investito
medio nel private equity italiano evidenzia forti differenze tra le diverse
tipologie di operazioni, a conferma della natura eterogenea del mercato. Il valore
medio complessivo è di 21,4 milioni di euro, ma scende a 11,4 milioni se si
escludono i large e mega deal, segno che la maggior parte delle operazioni si
colloca in una fascia medio-piccola. Il segmento infrastrutture si distingue nettamente con un ammontare medio
di 113,5 milioni di euro, risultando di gran lunga il più elevato. Questo
riflette l’importanza crescente degli investimenti in energia, trasporti e
digitalizzazione, settori sostenuti anche da capitali pubblici e fondi
specializzati. I buy out seguono con 44,3
milioni, un dato consistente che conferma l’interesse verso operazioni di
acquisizione e consolidamento aziendale. Le operazioni di expansion e early stage
mostrano valori molto più contenuti, rispettivamente 13,5 e 3,1 milioni di euro,
coerenti con il profilo di rischio e la dimensione più ridotta delle aziende
coinvolte. Le altre operazioni, con 20,3
milioni, rappresentano una fascia intermedia del mercato. Nel complesso, i dati
mostrano un sistema equilibrato, dove le operazioni di taglio medio restano
prevalenti, ma con punte significative nei settori infrastrutturali che
trainano l’ammontare complessivo (Figura 7).
Figura 7. Infrastrutture e buy out guidano gli investimenti: 113 milioni l’ammontare medio nel 2025.
Nel periodo 2021–primo semestre 2025, la
distribuzione del numero di investimenti tra initial
e follow on mostra un chiaro cambiamento
nella strategia degli operatori di private equity italiani. Nei primi anni del
periodo analizzato prevalgono gli investimenti initial,
pari al 56% nel 2021 e al 53% nel 2022, a testimonianza di un mercato orientato
verso nuove acquisizioni e ampliamento del portafoglio. Dal 2023 in poi, la
tendenza si inverte: i follow on, cioè gli
investimenti aggiuntivi su società già presenti nei portafogli, diventano
predominanti. Nel 2023 rappresentano il 65% del totale, seguiti dal 59% nel
2024 e dal 62% nel primo semestre 2025. Tale evoluzione riflette un approccio
più prudente da parte dei fondi, che preferiscono consolidare le partecipazioni
esistenti piuttosto che avviare nuove operazioni in un contesto di incertezza
macroeconomica e di tassi d’interesse elevati. La riduzione degli investimenti initial (fino al 38% nel 2025) indica inoltre
una maggiore attenzione alla gestione attiva del portafoglio,
all’ottimizzazione delle risorse e alla creazione di valore nelle aziende già
acquisite. In sintesi, il private equity italiano attraversa una fase di
consolidamento, puntando su strategie di crescita interna e rafforzamento delle
imprese partecipate (Figura 8).
Figura 8. Private equity più prudente: nel 2025
il 62% degli investimenti è follow on.
Nel primo semestre del 2025 la distribuzione
geografica degli investimenti di private equity in Italia conferma la forte
concentrazione nel Nord del Paese, che assorbe il 66% delle operazioni
complessive. Questa predominanza è legata alla maggiore presenza di imprese di
medie dimensioni, infrastrutture industriali e un ecosistema finanziario più
sviluppato, che rendono l’area settentrionale il principale polo di attrazione
per gli investitori. Il Centro Italia rappresenta il 16% del totale, un dato
stabile rispetto agli anni precedenti, con una concentrazione di operazioni
soprattutto in settori come servizi, tecnologia e moda. Il Sud e le Isole, invece,
restano ancora marginali, con solo il 6% degli investimenti, evidenziando un
divario strutturale nella capacità di attrarre capitali privati e nella
disponibilità di target aziendali di dimensioni adeguate. A livello
internazionale, il 12% degli investimenti è realizzato all’estero, segno di una
crescente propensione dei fondi italiani a diversificare geograficamente i
propri portafogli e a cogliere opportunità in mercati esteri più dinamici. Complessivamente,
il quadro evidenzia un mercato del private equity ancora fortemente
“nord-centrico”, ma con segnali di apertura verso nuove aree geografiche e
strategie d’internazionalizzazione (Figura 9).
Figura 9.  Il
Nord resta leader del private equity: 66% degli investimenti nel primo semestre
2025
Nel primo semestre del 2025 la distribuzione
regionale degli investimenti di private equity in Italia conferma una
fortissima concentrazione geografica. La Lombardia domina nettamente la scena
con 154 operazioni, rappresentando
da sola oltre la metà del totale nazionale. Questo primato riflette la
centralità economica e finanziaria della regione, dove si concentra la maggior
parte delle sedi aziendali, dei fondi e delle opportunità di investimento. Al
secondo posto si collocano Toscana (28 operazioni), Emilia-Romagna (25) e Lazio
(23), che insieme costituiscono un blocco di regioni dinamiche e con una
presenza consolidata di PMI innovative e imprese attrattive per i fondi di
private equity. Il Veneto (18) e il Piemonte (16) seguono con valori rilevanti
ma distanti dal baricentro lombardo. Nelle altre regioni, i numeri scendono
sotto la doppia cifra: Puglia (15), Friuli-Venezia Giulia (11), Liguria e
Trentino-Alto Adige (10 ciascuna) mostrano segnali di attività ma con un peso
marginale rispetto al Nord. Il Mezzogiorno nel complesso rimane poco
rappresentato: Umbria (5), Marche (4), Campania e Sicilia (3), Sardegna (2). Il
quadro evidenzia una forte polarizzazione
territoriale, dove il Nord catalizza la quasi totalità delle
operazioni, mentre il Sud continua a mostrare difficoltà strutturali
nell’attrarre capitali di rischio (Figura 10).
Figura 10. Private equity 2025: Lombardia regina
degli investimenti con 154 operazioni, Sud ancora indietro.
Nel primo semestre del 2025, la distribuzione
percentuale degli investimenti del private equity italiano per classi di
dipendenti conferma una netta predominanza delle piccole e medie imprese (PMI). Ben l’89% delle operazioni
riguarda aziende con meno di 250 addetti, a testimonianza della centralità del
tessuto imprenditoriale di piccole dimensioni nel panorama economico nazionale.
Le microimprese (0-19 dipendenti) rappresentano da sole il 57% degli investimenti, seguite dalle
aziende con 20-99 dipendenti (25%) e da quelle con 100-199 addetti (5%). Questi
dati indicano una chiara preferenza dei fondi per realtà flessibili, spesso
familiari o innovative, con potenziale di crescita ma ancora in fase di
sviluppo strutturale. Le imprese più grandi, con oltre 250 dipendenti, pesano
complessivamente solo per l’11% degli investimenti. Tra queste, le aziende con
250-499 dipendenti si attestano al 5%, mentre quelle con oltre 1.000 addetti
rappresentano appena il 3%. Questa distribuzione conferma che il private equity
in Italia continua a rivolgersi soprattutto al segmento delle PMI, che
costituisce l’ossatura dell’economia nazionale. Tuttavia, la bassa incidenza
delle operazioni su grandi imprese suggerisce margini di crescita per gli
investimenti in realtà più strutturate (Figura 11).
Figura 11. Private equity 2025: l’89% degli
investimenti italiani punta sulle PMI
Nel primo semestre del 2025, la distribuzione
percentuale degli investimenti del private equity italiano per classi di
fatturato conferma la prevalenza delle piccole
e medie imprese (PMI) come principali destinatarie dei capitali. L’87% delle operazioni ha riguardato aziende
con un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro, ribadendo il ruolo centrale
di questo segmento nell’economia e nella strategia dei fondi. Le microimprese,
con ricavi tra 0 e 2 milioni di euro, rappresentano la quota più ampia (59%), seguite dalle imprese con fatturato
tra 2 e 10 milioni (13%) e da
quelle tra 10 e 30 milioni (11%).
Questo indica una forte propensione del private equity a sostenere realtà di
dimensioni contenute ma ad alto potenziale di crescita, spesso in fase di
sviluppo o consolidamento. Le aziende con fatturato medio-alto (30-100 milioni)
pesano complessivamente per il 9%,
mentre solo il 4% degli
investimenti si concentra su imprese con ricavi superiori ai 250 milioni di
euro. Tale distribuzione suggerisce che, sebbene i fondi italiani mostrino
ancora cautela verso i grandi player industriali, cresce l’attenzione verso la
scalabilità delle PMI. In sintesi, il private equity continua a essere un
motore di sviluppo per le imprese più agili e innovative, sostenendole nei
percorsi di crescita e internazionalizzazione (Figura 12).
Figura 12. Private equity 2025: l’87% degli
investimenti va a imprese sotto i 50 milioni di fatturato
Nel primo semestre del 2025, la distribuzione
settoriale degli investimenti di private equity in Italia evidenzia un chiaro
predominio del comparto ICT, che
da solo raccoglie 130 operazioni,
pari a oltre un terzo del totale nazionale. Il dato conferma la centralità
della digitalizzazione e delle tecnologie innovative nel processo di
trasformazione delle imprese italiane, con particolare attenzione a software,
e-commerce e soluzioni cloud. A distanza, ma comunque con un peso rilevante, si
collocano il settore medicale (53
investimenti) e quello dei beni e servizi
industriali (46), che beneficiano della ripresa produttiva e della
transizione tecnologica verso processi più sostenibili e automatizzati. Anche l’energia e ambiente (28 operazioni) e le biotecnologie (27) registrano un crescente
interesse, trainati dalle politiche green e dall’innovazione sanitaria
post-pandemica. I comparti più tradizionali, come il manifatturiero alimentare
(9 investimenti), la moda (7) e i trasporti (8), mostrano un rallentamento,
mentre i settori legati ai servizi
finanziari e all’agricoltura
restano marginali. Nel complesso, il 2025 segna una fase in cui il capitale
privato privilegia l’innovazione, la digital economy e la sostenibilità,
delineando un progressivo spostamento degli investimenti verso comparti ad alto
contenuto tecnologico e di crescita (Figura 13).
Figura 13. Private equity 2025:
l’ICT domina gli investimenti, cresce l’interesse per energia e biotech. 
Nel periodo compreso tra il 2021 e il primo
semestre del 2025, l’attività di disinvestimento del private equity italiano
mostra un andamento fortemente ciclico, segnato da oscillazioni sia nel numero
di operazioni che nei volumi economici. Dopo un 2021 moderato, con 104
operazioni per un ammontare di circa 2,7 miliardi di euro, il 2022 registra una
crescita significativa: 117 disinvestimenti per un valore complessivo di 4,4
miliardi, segno di un contesto favorevole e di diverse exit di successo. Il
2023 rappresenta invece una fase di rallentamento, con l’ammontare in calo a
1,7 miliardi, probabilmente a causa dell’incertezza macroeconomica e
dell’aumento dei tassi d’interesse, che hanno ridotto la propensione a cedere
partecipazioni. Tuttavia, nel 2024 si osserva una forte ripresa: l’ammontare
raggiunge 5,7 miliardi di euro, il livello più alto del periodo, a fronte di
157 operazioni, sintomo di un mercato tornato dinamico e di un rinnovato
interesse degli investitori. Nel primo semestre 2025 l’attività torna su
livelli intermedi, con 71 operazioni per 2,7 miliardi, suggerendo una
normalizzazione dopo l’exploit dell’anno precedente. In sintesi, i
disinvestimenti riflettono un mercato maturo ma sensibile ai cicli economici,
dove le finestre favorevoli vengono sfruttate con rapidità (Figura 14).
Figura 14. Disinvestimenti 2025: dopo il record
del 2024, il mercato torna su livelli più stabili
Nel primo semestre del 2025, l’attività di
disinvestimento nel private equity italiano si concentra prevalentemente nella vendita a soggetti industriali, che
rappresenta il 44% delle operazioni
e il 39% dell’ammontare complessivo.
Questo dato evidenzia la tendenza dei fondi a cedere le partecipazioni a
imprese strategiche interessate all’integrazione verticale o all’ampliamento
del proprio business, una modalità di exit spesso associata a ritorni solidi e
rapidi. La vendita a un altro operatore di
private equity è la seconda forma più diffusa, con il 37% dell’ammontare ma solo il 18% delle operazioni, segnale che si
tratta di deal di dimensione medio-grande. Le IPO o cessioni sul mercato azionario si attestano intorno
al 10%, mantenendo un ruolo
stabile ma marginale, vista la volatilità dei mercati e la complessità dei
processi di quotazione. I buy back
da parte degli imprenditori o del management raggiungono il 25% delle operazioni, riflettendo una
crescente volontà di riacquisire il controllo aziendale, spesso facilitata da
condizioni finanziarie favorevoli o da solidi risultati economici. Nel
complesso, il quadro mostra un mercato dinamico ma prudente, dove le uscite
industriali restano la via preferita e più remunerativa, mentre le operazioni
di mercato e i ritorni manageriali assumono un ruolo complementare (Figura 15).
Figura 15. Private equity 2025: i disinvestimenti
trainati dalle vendite industriali e dai buy back 
Nel primo semestre 2025, la
distribuzione dell’ammontare disinvestito nel private equity italiano mostra
una forte concentrazione nel segmento “Buy
Out”, che rappresenta il 56% del
totale. Questa predominanza conferma come le operazioni di
acquisizione di controllo restino la principale fonte di ritorno per gli
investitori, grazie alla loro capacità di generare flussi di cassa consistenti
e margini di plusvalenza elevati al momento della vendita. Le infrastrutture costituiscono la seconda
categoria per peso, con il 33%,
segno di una crescente importanza di questo comparto, spinto dagli investimenti
in energia, transizione verde e reti strategiche. Si tratta di asset a basso
rischio ma con cicli di disinvestimento più lunghi, che nel 2025 hanno
probabilmente offerto opportunità di uscita favorevoli. Le altre categorie — Expansion (6%), Turnaround (3%), Replacement
(1%) e Early Stage (1%) —
mantengono un ruolo marginale. Ciò riflette la natura più rischiosa o di lungo
periodo di questi investimenti, che raramente producono disinvestimenti
significativi su base semestrale. Nel complesso, i dati evidenziano un mercato
concentrato su operazioni mature e consolidate, in cui i fondi privilegiano
strategie di exit stabili e prevedibili, con un’attenzione crescente verso
l’infrastrutturale come seconda area chiave.
Figura 16. Buy Out e infrastrutture dominano i
disinvestimenti del private equity nel 2025. 
Risultati.
L’analisi congiunta condotta da Mediobanca, LIUC Business School e AIFI mette
in evidenza risultati significativi sull’impatto del private equity nelle
imprese italiane. Le aziende partecipate da fondi registrano una crescita del
fatturato del 25% nei due anni successivi all’investimento, a fronte del +9%
delle non partecipate, e un incremento dell’occupazione del 17,6% rispetto
all’1,3% del campione di controllo. Ancora più marcato l’aumento dell’attivo
patrimoniale, cresciuto dell’82% contro il 14% delle imprese indipendenti, a
conferma di un rafforzamento strutturale e di una maggiore capacità di
investimento. Il private equity si conferma dunque un acceleratore di sviluppo
sostenibile, capace di migliorare la governance, favorire la capitalizzazione e
accompagnare le imprese nella crescita internazionale. Parallelamente, i dati
AIFI sul mercato del private equity italiano nel periodo 2021–primo semestre
2025 delineano un contesto dinamico ma ciclico. Dopo una raccolta di 5,7
miliardi di euro nel 2021 e un picco di 5,9 miliardi nel 2022, il 2023 ha
segnato un rallentamento a 3,8 miliardi, seguito da una forte ripresa nel 2024
con 6,7 miliardi, per poi tornare a 1,7 miliardi nel primo semestre 2025. La
composizione delle fonti di capitale mostra la predominanza di enti pubblici e
istituzionali (26%), seguiti da fondi pensione (12%), banche (11%) e family
office (10%), segnale di una crescente maturità del sistema. Nel 2025 il
mercato ha contato 370 operazioni per 5,2 miliardi di euro investiti, con i buy
out al 59% e l’early stage in crescita al 35%, trainato da startup e imprese
innovative. Geograficamente, il Nord Italia resta il fulcro dell’attività (66%
delle operazioni), con la Lombardia in testa. Il settore ICT domina con 130
investimenti, seguito dal medicale e dai beni industriali, a testimonianza di
un private equity sempre più orientato verso innovazione, digitalizzazione e
sostenibilità.
Conclusioni. L’analisi condotta da Mediobanca,
LIUC Business School e AIFI offre un quadro chiaro e approfondito sul ruolo
strategico del private equity nello sviluppo del sistema produttivo italiano.
In vent’anni di attività, i fondi di investimento hanno rappresentato un
fattore determinante per la crescita e la modernizzazione delle imprese di
medie dimensioni, contribuendo non solo al rafforzamento finanziario ma anche
alla trasformazione culturale e organizzativa del tessuto industriale
nazionale. I numeri sono eloquenti: le aziende partecipate da fondi hanno
registrato un incremento dell’attivo patrimoniale dell’82% contro il 14% delle
non partecipate, una crescita del fatturato del 25% nei due anni successivi
all’investimento e un aumento dell’occupazione del 17,6%. Questi risultati
dimostrano che l’apporto dei fondi va ben oltre il semplice sostegno
finanziario, configurandosi come un vero e proprio motore di innovazione e
competitività. Il private equity si distingue per la sua capacità di combinare
capitale, competenze e visione strategica, offrendo alle imprese strumenti per
affrontare le sfide della globalizzazione, della transizione digitale e della
sostenibilità. L’approccio italiano, più prudente e collaborativo rispetto ai
modelli anglosassoni, si basa su una relazione di partnership con gli
imprenditori, nella quale il fondo diventa un alleato industriale piuttosto che
un mero investitore finanziario. Questo modello si è rivelato efficace nel
garantire una crescita sostenibile, preservando la stabilità patrimoniale e
l’identità delle aziende partecipate. I dati mostrano inoltre come il private
equity stia evolvendo verso una maggiore diversificazione: cresce l’interesse
per l’early stage e l’innovazione tecnologica, mentre i buy out restano la
componente dominante, a conferma di un mercato maturo ma dinamico. La forte
concentrazione geografica degli investimenti nel Nord Italia evidenzia,
tuttavia, un divario territoriale che andrebbe progressivamente colmato per favorire
uno sviluppo più equilibrato. L’ampliamento dell’accesso ai capitali di rischio
nel Centro e Sud del Paese rappresenterebbe un passo decisivo per stimolare la
crescita di nuove filiere produttive e rafforzare la competitività complessiva
del sistema.Anche dal punto di vista delle fonti di capitale, il settore mostra
segnali di maturità, con una crescente partecipazione di investitori
istituzionali e privati. Tuttavia, il calo della raccolta nel 2025 segnala la
necessità di consolidare la fiducia del mercato e di attrarre capitali di lungo
periodo, in un contesto globale ancora incerto. In questa prospettiva, la
collaborazione tra fondi pubblici e privati può assumere un ruolo strategico
per garantire stabilità e continuità agli investimenti. In conclusione, il
private equity in Italia si conferma una leva fondamentale per lo sviluppo
delle medie imprese, favorendo processi di crescita sostenibile, innovazione e
internazionalizzazione. La sua azione ha contribuito a rendere più solido e
competitivo il tessuto produttivo nazionale, generando valore economico e
occupazionale. La sfida per il futuro sarà quella di proseguire su questa
traiettoria, potenziando la capacità dei fondi domestici, ampliando la base
territoriale degli investimenti e promuovendo un ecosistema sempre più
orientato alla sostenibilità e alla digitalizzazione. Se il private equity
saprà mantenere il suo ruolo di partner industriale e strategico delle imprese,
potrà continuare a essere uno dei principali motori della crescita italiana nei
prossimi decenni.
Fonte: Mediobanca e AIFI
Link: https://www.aifi.it/visualizzaallegatodocumenti.aspx?chiave=q5is5J674M2yn82Lc41G7Nl3Rqcm9C   
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