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Il rischio di povertà in Italia resta stabile ma
con forti divari territoriali persistenti.
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Nord ed Emilia-Romagna mostrano resilienza
economica, mentre Sud e Isole restano strutturalmente vulnerabili.
· Crescono nuove fragilità sociali anche nel Centro-Nord, legate a precarietà lavorativa e bassi salari.
I dati sul
rischio di povertà forniti dall’Istat attraverso l’indagine EU-SILC
rappresentano uno degli indicatori più significativi della condizione economica
e sociale del Paese. Il rischio di povertà misura la percentuale di persone che
vivono in famiglie con un reddito disponibile inferiore al 60% della mediana
nazionale e indica la quota della popolazione che, pur non essendo
necessariamente in povertà assoluta, dispone di risorse economiche
insufficienti per mantenere uno standard di vita considerato accettabile. Si
tratta quindi di un indicatore relativo, strettamente collegato alla
distribuzione dei redditi e alla capacità dei sistemi economici regionali di
garantire inclusione sociale.
Nel corso
dell’ultimo ventennio il rischio di povertà in Italia si è mantenuto su livelli
elevati e sostanzialmente stabili. Il valore medio nazionale oscilla attorno al
19-20% e ciò significa che circa un italiano su cinque si trova in una
situazione di vulnerabilità economica. La tendenza complessiva non mostra
miglioramenti significativi, nonostante fasi di crescita economica e politiche
di contrasto alla povertà come il Reddito di cittadinanza abbiano
temporaneamente mitigato l’impatto in alcune aree del Paese. L’elemento più
evidente che emerge dall’analisi è la forte disomogeneità territoriale, con un
gradiente Nord-Sud ancora molto marcato. Nel Nord il rischio di povertà si
colloca mediamente tra il 10% e il 12%, nel Centro tra il 13% e il 16%, mentre
nel Mezzogiorno supera stabilmente il 33%, con picchi oltre il 40% in alcune
regioni meridionali.
Nel Nord
Italia la situazione appare più favorevole, ma non priva di criticità. Il
rischio medio di povertà si mantiene su valori contenuti, ma si osserva negli
ultimi anni un lieve incremento, segnale che le disuguaglianze stanno
gradualmente ampliandosi anche nei territori più sviluppati. In Piemonte, per
esempio, il rischio oscilla tra l’11% e il 13%, un livello leggermente
inferiore alla media nazionale ma in crescita rispetto ai valori più bassi
registrati all’inizio del periodo. In Lombardia, nonostante la solidità
economica e l’elevato reddito medio, la quota di persone a rischio di povertà è
aumentata fino a superare il 12%, evidenziando la presenza di segmenti di
popolazione più fragili, spesso legati a forme di lavoro precario o a nuclei
familiari monopersonali. La Liguria mostra valori più elevati rispetto al resto
del Nord, oscillando tra il 14% e il 19%, un livello che la colloca vicino alle
regioni centrali, probabilmente a causa della struttura demografica anziana e
della ridotta dinamicità del mercato del lavoro. La Valle d’Aosta si distingue
invece per livelli generalmente più bassi, anche se variabili nel tempo,
compresi tra il 6% e il 9%, con punte più alte in alcuni anni recenti che
riflettono la vulnerabilità delle economie di piccola scala.
Nel Nord-Est
la situazione appare più stabile. Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia
Giulia ed Emilia-Romagna registrano i valori più contenuti del Paese, in media
intorno al 9-10%. Queste regioni beneficiano di un’economia più equilibrata,
con tassi di occupazione elevati e un tessuto produttivo solido. Tuttavia,
anche qui si notano leggere fluttuazioni, con incrementi temporanei nei momenti
di crisi economica. L’Emilia-Romagna, per esempio, ha mantenuto nel tempo un
rischio di povertà inferiore al 10%, ma con episodi di lieve aumento collegati
alle fasi recessive. Il Veneto mostra una tendenza simile, con valori che
raramente superano il 12%. Le Province autonome di Trento e Bolzano continuano
a rappresentare un modello di equilibrio economico e sociale: i valori di
rischio, pur con variazioni, restano tra i più bassi d’Italia, oscillando tra
il 6% e il 9%.
Passando al
Centro, si osserva un progressivo aumento del rischio di povertà a partire
dagli anni della crisi economica del 2008 e un consolidamento su livelli
medio-alti. Il valore medio per l’area si colloca attorno al 15%, con
differenze interne non trascurabili. In Toscana il rischio è cresciuto fino a
superare in alcuni anni il 14%, segnalando un peggioramento del benessere
economico diffuso e l’aumento delle disuguaglianze tra città e aree rurali.
L’Umbria, storicamente più fragile, ha mostrato valori spesso superiori al 15%,
con un picco di oltre il 18% in alcune annate, prima di registrare un leggero
miglioramento recente. Le Marche presentano un andamento analogo, con
oscillazioni tra l’11% e il 16%, influenzate dalla crisi del manifatturiero e
da una crescita economica discontinua. Il Lazio si distingue invece per valori
nettamente più elevati rispetto alla media del Centro, oscillando tra il 16% e
oltre il 21%. Tale livello di rischio riflette la forte polarizzazione
economica della regione, dove la concentrazione della ricchezza a Roma coesiste
con situazioni di povertà diffusa nelle periferie e nelle province interne. Il
Mezzogiorno continua a rappresentare l’area più critica del Paese, con livelli
di rischio di povertà che in alcune regioni superano il 35%. Il valore medio
per il Sud e le Isole è di circa il 33-34%, stabile nel tempo ma
drammaticamente alto rispetto agli standard europei. In Campania, Calabria e
Sicilia il rischio si mantiene tra il 35% e il 40%, con punte oltre il 41% in
alcuni anni. Questi dati segnalano un fenomeno strutturale, radicato in una
combinazione di disoccupazione elevata, economia sommersa, bassa istruzione e
carenza di servizi pubblici. In Campania, ad esempio, il rischio di povertà
rimane stabile attorno al 37%, nonostante la lieve crescita economica degli
ultimi anni. In Sicilia la situazione è ancora più grave, con valori
costantemente superiori al 38%. La Calabria, pur registrando qualche
oscillazione, resta stabilmente su livelli analoghi. Anche le regioni
meridionali più piccole, come Basilicata e Molise, presentano dati
preoccupanti, rispettivamente attorno al 28-30%, con tendenze altalenanti
legate alla debolezza dei mercati del lavoro locali. In Abruzzo, che in passato
mostrava valori intermedi, il rischio di povertà è cresciuto sensibilmente
negli ultimi anni fino a superare il 27%.
Le regioni
insulari mostrano andamenti simili ma con peculiarità proprie. In Sardegna il
rischio di povertà è aumentato fino a toccare quasi il 31%, con un
peggioramento rispetto al passato dovuto alla fragilità del mercato del lavoro
e alla crisi dei settori tradizionali. Nelle Isole, nel complesso, la quota di
popolazione a rischio resta stabilmente sopra il 35%, evidenziando come il
dualismo territoriale italiano non abbia conosciuto sostanziali miglioramenti.
Le
differenze territoriali riflettono profondi divari economici e sociali. Il
Nord, con un rischio medio attorno all’11%, concentra le regioni a più alta
produttività, tassi occupazionali elevati e reti di welfare locale più solide.
Il Centro, con valori tra il 13% e il 16%, presenta una struttura economica
intermedia, caratterizzata da disuguaglianze interne e una crescente
vulnerabilità delle fasce medie. Il Mezzogiorno, infine, con valori oltre il
33%, continua a soffrire la carenza di opportunità occupazionali, la
frammentazione del tessuto produttivo e la debolezza del capitale sociale.
La stabilità
nel tempo di questi divari dimostra che il rischio di povertà in Italia non è
un fenomeno congiunturale, ma strutturale. Le politiche di contrasto alla
povertà hanno avuto effetti limitati e spesso temporanei, non riuscendo a
modificare i meccanismi profondi che generano disuguaglianza. Le aree più
vulnerabili sono caratterizzate da un intreccio di fattori: bassi livelli di
istruzione, scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, alta
disoccupazione giovanile e ridotta mobilità sociale.
Un aspetto
rilevante è anche la trasformazione del rischio di povertà nelle aree più
sviluppate. Se nel Mezzogiorno la povertà resta prevalentemente legata alla
mancanza di lavoro, nel Nord e nel Centro emergono nuove forme di
vulnerabilità, spesso connesse alla precarietà, ai bassi salari e alla
frammentazione familiare. Il lavoro non rappresenta più una garanzia di
sicurezza economica e aumenta il numero di persone “working poor”, ovvero
occupati che, pur avendo un impiego, restano sotto la soglia di rischio.
Nel
complesso, i dati mostrano un’Italia divisa in tre: un Nord competitivo ma con
crescenti disuguaglianze interne, un Centro in progressivo indebolimento e un
Sud strutturalmente in difficoltà. L’andamento del rischio di povertà dimostra
che la crescita economica da sola non è sufficiente a ridurre la vulnerabilità
sociale; occorrono politiche mirate di inclusione, formazione, sostegno al
reddito e rafforzamento dei servizi pubblici. Il miglioramento dell’occupazione
giovanile e femminile, la riduzione del lavoro irregolare e la valorizzazione
del capitale umano restano condizioni essenziali per invertire la tendenza.
In
conclusione, il rischio di povertà in Italia rimane elevato e persistentemente
diseguale. Il divario territoriale tra Nord e Sud, lungi dal ridursi, continua
a rappresentare una delle principali sfide del Paese. La resilienza economica
delle regioni settentrionali non è bastata a compensare la fragilità di quelle
meridionali, e le politiche redistributive hanno avuto un impatto limitato. Il
quadro che emerge è quello di un Paese dove la povertà non è solo una questione
di reddito, ma il risultato di un insieme complesso di fattori economici,
sociali e culturali. Ridurre il rischio di povertà richiede quindi una
strategia integrata di lungo periodo, capace di coniugare sviluppo, coesione e
giustizia sociale.
Fonte: ISTAT
Link: www.istat.it 
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